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Il Commercialista, così come l’Avvocato, deve sconsigliare azioni infondate o inutilmente gravose ed informare il cliente sulla possibilità di accedere a strumenti di definizione agevolata dell’accertamento.

IL CASO. Un commercialista e gli eredi di un ragioniere venivano convenuti in giudizio da due soci al 50% di una S.r.l., la quale nel 2010 aveva ricevuto due avvisi di accertamento, così come gli stessi soci, che avevano pertanto affidato al commercialista l’incarico di valutare l’opportunità di contestare gli avvisi mediante ricorso alla Commissione Tributaria Provinciale.

Il commercialista, assieme al ragioniere, valutata l’opportunità di contestare gli avvisi di accertamento, notificavano per conto della società S.r.l. all’Agenzia delle Entrate i relativi ricorsi, senza tuttavia che questi fossero firmati e muniti di firma digitale della procura alle liti e autenticazione delle sottoscrizioni. I due professionisti proponevano ricorso anche avverso gli accertamenti ricevuti dai due soci senza tuttavia confrontarsi con gli stessi, non fornendo loro alcuna informativa e non producendo alcuna documentazione utile alla difesa.

I ricorsi della società venivano dichiarati inammissibili dalla Commissione Tributaria Provinciale di Vicenza, mentre quelli dei soci venivano dichiarati inaccoglibili in base alla incontestabilità dell’accertamento nei confronti della società derivante dall’inammissibilità del ricorso. Veniva successivamente proposto appello avanti la Commissione Tributaria Regionale che – intervenuto medio tempore lo scioglimento e la messa in liquidazione della società – dichiarava l’estinzione del procedimento nei confronti della s.r.l., confermando la sentenza emessa nei confronti dei soci.

Al fine di valutare l’opportunità di proporre ricorso per Cassazione, gli attori ricevevano tutti gli atti di causa, mai ricevuti sino a quel momento. Da un lato essi valutavano negativamente la possibilità di esperire il ricorso, dall’altro contestavano l’inadempimento del mandato professionale del commercialista e del ragioniere, che avrebbero commesso gravi errori processuali e di strategia difensiva, tale da determinare l’esito infausto della lite.

Gli attori convenivano in giudizio i due professionisti avanti il Tribunale di Vicenza chiedendo la condanna degli stessi al risarcimento di quanto pagato all’AE o, in subordine, il risarcimento nella misura del maggior esborso che gli stessi avevano subito, stante la mancata informativa rispetto alla valutazione prognostica sfavorevole del ricorso.

LA DECISIONE. Il Tribunale di Vicenza, con sentenza n. 662/2020 depositata in data 26.3.2020, ha accolto le domande attoree svolte in via subordinata, condannando i convenuti a corrispondere l’importo delle maggiori sanzioni pagate dagli attori rispetto alla possibilità di una definizione agevolata dell’accertamento.

Ribadito per il Commercialista ciò che si afferma per l’Avvocato, e cioè che le obbligazioni inerenti l’esercizio dell’attività professionale sono obbligazioni di mezzi e che ai fini del giudizio di responsabilità rilevano le modalità concrete con le quali è stata svolta detta attività (e non il conseguimento o meno del risultato) “avuto riguardo, da un lato, al dovere primario di tutelare le ragioni del cliente e, dall’altro, al rispetto del parametro di diligenza a cui questo è tenuto, il Tribunale ricorda che l’affermazione della responsabilità per colpa professionale implica una valutazione prognostica positiva circa il probabile esito favorevole del ricorso alla commissione tributaria. In particolare, il cliente ha l’onere di provare: l’esistenza del contratto d’opera professionale, la difettosa o inadeguata prestazione professionale, il nesso di causalità tra questa e il danno-evento lamentato, l’esistenza effettiva di un danno-conseguenza risarcibile.

Ciò detto, secondo il Tribunale, l’errore commesso dal commercialista e dal ragioniere (mancata sottoscrizione dei ricorsi e mandati) non è risultato sufficiente a fondarne la responsabilità, in quanto il vaglio circa il possibile esito positivo della lite, condotto secondo il principio del “più probabile che non”, ha portato ad escludere che se i ricorsi  fossero stati correttamente instaurati l’esito sarebbe stato positivo.

Quanto invece alla domanda svolta in via subordinata che ha trovato accoglimento, il Tribunale ha affermato che spettava al professionista informare i clienti circa le scarse possibilità di successo dell’impugnazione, dissuaderli dal fare ricorso alla giustizia tributaria e consigliare loro le forme di definizione agevolata dell’accertamento. Trova, infatti, applicazione anche al professionista commercialista il seguente principio: “l’Avvocato ha l’obbligo di non consigliare azioni inutilmente gravose e di informare il cliente sulle caratteristiche della controversia e sulle possibili soluzioni. In particolare, sussiste lo specifico obbligo in capo all’Avvocato di dissuadere il cliente da azioni che siano manifestamente prive di fondamento (Cass. 9695/2016)”.

TRib. Vicenza 26.3.2020

LA CASSAZIONE TORNA AD ESPRIMERSI SULLA NATURA E SUGLI ONERI PROBATORI DELL’AZIONE SOCIALE DI RESPONSABILITA’ CONTRO AMMINISTRATORI E SINDACI DI SOCIETA’ DI CAPITALI.

IL CASO. Il Tribunale di Milano, con sentenza n. 14397 del 2014, in parziale accoglimento della domanda proposta dai soci di minoranza di una s.r.l., disponeva la revoca dalla carica degli amministratori (e soci) per mala gestio, condannandoli contestualmente al risarcimento dei danni cagionati. 

La Corte d’Appello di Milano, con sentenza n. 4815 del 15.12.2015, riformava la pronuncia di primo grado.

LA DECISIONE. I soci di minoranza proponevano gravame avanti alla Suprema Corte. Il ricorso, articolato su cinque motivi, veniva rigettato.

Si evidenzia da subito che l’ordinanza in commento, benchè si soffermi sulla tematica “classica” della natura e dell’onere della prova nell’azione sociale di responsabilità, ha il pregio di offrire una chiara dimostrazione “pratica” delle valutazioni che sono chiamati ad effettuare i Giudici in occasione della decisione di tali controversie.

Al riguardo, risulta essere di particolare importanza la soluzione del primo motivo, in cui si contesta, tra l’altro, la violazione o falsa applicazione di legge in relazione alle norme in tema di onere della prova e, in particolare, dell’art. 2697 c.c. in relazione all’art. 2476 c.c., con riferimento all’errato rilievo, a detta dei soccombenti, della mancata prova del fatto costitutivo del diritto azionato. Si evidenzia, infatti, come nell’impugnata sentenza i ricorrenti, a fronte della produzione di documentazione giustificativa relativa ai rimborsi per le spese di trasferta erogati agli amministratori e ai dipendenti, non abbiano provveduto a specifica e analitica contestazione.

La Cassazione, richiamandosi a costante e consolidata giurisprudenza, rileva che: “L’azione di responsabilità sociale promossa contro amministratori e sindaci di società di capitali ha natura contrattuale, dovendo di conseguenza l’attore provare la sussistenza delle violazioni contestate e il nesso di causalità tra queste e il danno verificatosi, mentre sul convenuto incombe l’onere di dimostrare la non imputabilità del fatto dannoso alla sua condotta, fornendo la prova positiva dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi imposti.”

Inoltre specifica che “in tema di azione di responsabilità verso gli amministratori sociali, sull’attore incombe la prova dell’illiceità dei comportamenti degli amministratori medesimi. Allorquando tali comportamenti non siano in sè vietati dalla legge o dallo statuto e l’obbligo di astenersi dal porli in essere discenda dal dovere di lealtà, coincidente col precetto di non agire in conflitto di interessi con la società amministrata, o dal dovere di diligenza, consistente nell’adottare tutte le misure necessarie alla cura degli interessi sociali a lui affidati, l’illecito è integrato dal compimento dell’atto in violazione di uno dei menzionati doveri. In tal caso l’onere della prova dell’attore non si esaurisce nella prova dell’atto compiuto dall’amministratore ma investe anche quegli elementi di contesto dai quali è possibile dedurre che lo stesso implica violazione del dovere di lealtà o di diligenza.”

La Suprema Corte, in conclusione, osserva come la Corte territoriale non abbia contraddetto i principi sopra esposti, considerato che la decisone era basata sulla ravvisata insussistenza di un illecito che non poteva consistere tout court nel rimborso delle spese di trasferta, ma nel carattere ingiustificato di tali erogazioni che però, come sopra evidenziato, non aveva trovato contestazione.

Cass. Civ., Sez. I, Ord. n. 2975_2020

 

SE L’ASSEMBLEA DEI SOCI APPROVA IL BILANCIO NON SUSSISTONO GLI ESTREMI PER DICHIARARE LO SCIOGLIMENTO DELLA SOCIETA’ AI SENSI DELL’ART. 2484, COMMA 1, N. 3 C.C..

IL CASO. Il socio di una s.r.l., chiedeva al Tribunale di Firenze
di dichiarare sciolta la società, non essendo questa più in grado di operare a
causa dei dissidi tra i soci, titolari di quote paritarie, che impedivano
l’adozione di qualunque decisione da parte dell’assemblea.

LA DECISIONE. Il Collegio, nel rigettare il ricorso, rilevava che
non sussistevano gli estremi per l’applicazione dell’art. 2484, comma 1, n. 3
c.c., considerato che l’approvazione del bilancio 2018, alla quale la
resistente non aveva partecipato, era sufficiente, a dimostrare una residua o
recuperata capacità di funzionamento dell’assemblea dei soci.

Il provvedimento in commento, nonostante la succinta motivazione,
nasconde in realtà un profilo di rilevante interesse, in quanto,si esprime su
quello che può essere considerato un tipico caso di scuola, ovvero, il caso
della società partecipata da due soci, titolari ciascuno della metà del
capitale e che votano l’uno contro le proposte dell’altro.

In tale caso, il giudice, per decidere sull’applicabilità dell’art.
2484 c.c., è chiamato a valutare se la situazione patologica dell’organo
assembleare, data dalla impossibilità di funzionamento, sia idonea (o meno) a
configurare una paralisi definitiva e irreversibile dello stesso.

Al riguardo, appare evidente, che il Tribunale di Firenze,
nonostante non lo abbia esplicitato, nel redigere il provvedimento in commento avesse
ben presente quella giurisprudenza [1], ormai
pacifica, che afferma che: “L’impossibilità
di funzionamento dell’assemblea che, ai sensi dell’art. 2484 c.c., è causa di
scioglimento della società, non si identifica con l’inattività dell’organo, ma
sussiste in tutti i casi in cui insanabili contrasti tra i soci impediscano
all’assemblea di adottare i provvedimenti necessari per la vita sociale, come
la nomina degli amministratori o l’approvazione del bilancio.”

Trib. Firenze Ordinanza


[1] Trib. Milano, Sez. VIII, 26.6.2004 in
Diritto e Giustizia

 

Il reddito di cittadinanza non ha natura alimentare e può essere interamente pignorato a fronte dell’inadempimento del coniuge obbligato al mantenimento.

IL CASO. Una madre, titolare dell’assegno di contribuzione al mantenimento delle due figlie minori, a fronte dell’inadempimento del coniuge, percettore del reddito di cittadinanza, proponeva ricorso ai sensi dell’art. 156 co.4 c.c., il quale prevede che “in caso di inadempienza, su richiesta dell’avente diritto, il giudice può disporre il sequestro di parte dei beni del coniuge obbligato e ordinare ai terzi, tenuti a corrispondere anche periodicamente somme di danaro all’obbligato, che una parte di esse venga versata direttamente agli aventi diritto”. La signora chiedeva, oltre al sequestro della quota di proprietà del marito dell’immobile adibito a casa coniugale, l’emissione dell’ordine di pagamento di una somma pari all’assegno di mantenimento al Ministero del Lavoro e/o all’INPS.

Il marito si opponeva tanto alla richiesta di sequestro (per la sproporzione tra la quota di proprietà dell’immobile ed il debito verso la moglie), quanto alla domanda di pagamento diretto, stante la ritenta impignorabilità del reddito di cittadinanza.  

LA DECISIONE. Il Tribunale di Trani, con provvedimento del 30.1.2020, richiamate alcune pronunce della Suprema Corte in materia di separazione personale e versamento diretto da parte dei terzi tenuti a corrispondere periodicamente delle somme al coniuge inadempiente all’obbligazione di mantenimento, e ritenuto provato e comunque non contestato l’inadempimento, ha accolto il ricorso ex art. 156 co. 4 c.c. e per l’effetto ha quindi autorizzato il sequestro della quota del 75% dell’immobile di proprietà del marito ed ordinato all’INPS di versare direttamente e mensilmente alla moglie l’importo corrispondente all’assegno di mantenimento prelevandolo dal reddito di cittadinanza.

Quanto, in particolare, all’ordine al terzo disposto ai sensi dell’art.156 c.c., il Tribunale ha ritenuto che lo stesso possa essere disposto anche cumulativamente e quindi contemporaneamente al sequestro dei beni del coniuge inadempiente, costituendo l’“unico strumento di sicura attuazione del credito dell’istante”, in quanto l’inadempimento dell’obbligo di mantenimento genera fondati dubbi sulla tempestività dei futuri pagamenti.

Secondo il Tribunale, il reddito di cittadinanza – introdotto quale “misura di politica attiva dell’occupazione” contro la povertà, la diseguaglianza e l’esclusione sociale – può “essere utilizzato per i bisogni primari delle persone delle quali il titolare ha l’obbligo di prendersi cura, anche se non fa più parte dello stesso nucleo familiare” e ne è ammessa la sua piena pignorabilità senza l’osservanza dei limiti di cui all’art. 545 c.p.c..

Infatti, conformemente a quanto espresso dalla dottrina, il reddito di cittadinanza non ha natura alimentare e non deve ritenersi soggetto alle disposizioni che prevedono divieti di pignorabilità, avendo queste ultime carattere eccezionale: “una volta ammessa la piena pignorabilità del reddito di cittadinanza, non sussiste alcuna ragione né logica né giuridica, per escludere l’ammissibilità dell’ordine di pagamento diretto al coniuge di una quota del reddito di cittadinanza erogato all’atro, inadempiente agli obblighi scaturenti dalla separazione”.

Trib. Trani 30.1.2020

IL “NUOVO” STUDIO LEGALE AI TEMPI DEL CORONAVIRUS

Si condivide il contributo del 𝗗𝗶𝗽𝗮𝗿𝘁𝗶𝗺𝗲𝗻𝘁𝗼 𝗦𝘁𝗿𝗮𝘁𝗲𝗴𝗶𝗮, 𝗢𝗿𝗴𝗮𝗻𝗶𝘇𝘇𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲 𝗲 𝗠𝗮𝗿𝗸𝗲𝘁𝗶𝗻𝗴 𝗽𝗲𝗿 𝘀𝘁𝘂𝗱𝗶 𝗹𝗲𝗴𝗮𝗹𝗶 della 𝗙𝗼𝗻𝗱𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲 𝗔𝗜𝗚𝗔 𝗧𝗼𝗺𝗺𝗮𝘀𝗼 𝗕𝘂𝗰𝗰𝗶𝗮𝗿𝗲𝗹𝗹𝗶, su “Come trasformare questa emergenza in una opportunità di crescita in termini tecnologici per la nostra professione”.

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PER LA CORTE DI CASSAZIONE L’ART 650 C.P.C. TROVA APPLICAZIONE ANCHE QUALORA IL FASCICOLO MONITORIO NON SIA CONSULTABILE A CAUSA DI UN DISGUIDO DELLA CANCELLERIA

 

IL CASO. Il Giudice di Pace di Strambino, nel pronunciarsi su una opposizione a decreto ingiuntivo depositata tardivamente dall’opponente, a causa di un disguido della cancelleria, che gli aveva impedito di avere conoscenza dei documenti contenuti nel fascicolo monitorio, accoglieva la domanda di revoca del decreto da questi formulata, previo rigetto dell’eccezione pregiudiziale di tardività della stessa.

Avverso tale sentenza veniva interposto gravame avanti al Tribunale di Ivrea che, ribaltando la precedente decisione, escludeva l’applicabilità della disciplina dell’art. 650 c.p.c..

LA DECISIONE. La soccombente proponeva ricorso alla Suprema Corte, articolato su due motivi. Con il primo, denunciava la nullità della sentenza e del procedimento, oltre che l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio e l’errata applicazione dell’art. 650 c.p.c., mentre con il secondo, un ulteriore vizio riconducibile alla nullità della sentenza e del procedimento, nonchè l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio e l’errata applicazione dell’art. 153 comma 2, c.p.c..

La Corte di Cassazione, nell’accogliere il primo motivo, con derivante assorbimento del secondo, argomentava rilevando che la trasmissione del fascicolo monitorio all’Agenzia delle Entrate, a causa di un disguido delle cancelleria, prima della scadenza del termine per proporre opposizione, avrebbe dovuto comportare lo spostamento in avanti del termine di decorrenza per la formulazione dell’opposizione da far coincidere con la recuperata conoscibilità dei documenti acquisiti del fascicolo monitorio per effetto del suo riavvenuto deposito.

Di conseguenza, alla luce delle predette considerazioni, la Suprema Corte con sentenza n. 4448 del 20.2.2020, cassava l’impugnata pronunzia e rinviava la causa al Tribunale di Ivrea che avrebbe dovuto uniformarsi al seguente principio di diritto: “Deve ritenersi ammissibile l’opposizione tardiva a decreto ingiuntivo di cui all’art. 650 c.p.c., allorquando – per causa riconducibile ad un evento oggettivo e non prevedibile, successivo all’emissione del decreto monitorio, integrante un caso fortuito (nella fattispecie l’invio, per un mero disguido della cancelleria, del fascicolo monitorio ad un altro ufficio prima della scadenza del termine previsto dall’art. 641, comma 1, c.p.c., con la sua successiva restituzione oltre detto termine), secondo la portata assunta dalla citata norma a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 120 del 1976 – l’ingiunto non abbia potuto avere conoscenza, senza sua colpa, entro il citato termine di quaranta giorni dalla notificazione del decreto ingiuntivo dei documenti contenuti nel fascicolo monitorio (posti a fondamento del ricorso ex art. 633 c.p.c. e da restare depositati in cancelleria, unitamente all’originale del ricorso e dell’emesso decreto), così rimanendo impedita l’esercitabilità del suo pieno ed effettivo diritto di difesa, costituzionalmente garantito, ai fini della proposizione dell’opposizione al decreto ingiuntivo.”

Cass. Civ. n. 4448_2020

Le Sezioni Unite si pronunciano sulla competenza a provvedere sulla revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato nel giudizio di Cassazione e sui presupposti per la debenza di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato.

IL CASO. Il Giudice di Pace di Napoli accoglieva la domanda di condanna al pagamento delle competenze professionali proposta dall’attore per una perizia eseguita – ai fini della liquidazione del danno in relazione ad un sinistro stradale – per conto di una società assicurativa.
Detta decisione veniva impugnata avanti il Tribunale di Napoli che, avendo ravvisato nell’iniziativa dell’attore un abusivo frazionamento del credito (erano stati infatti instaurati distinti giudizi per pretese creditorie relative a sinistri stradali differenti ma riconducibili all’unico rapporto contrattuale d’opera intercorrente tra le parti), riformava la decisione di primo grado rigettando la domanda attorea. Oltre che improponibile per il suesposto motivo, la domanda si presentava altresì infondata nel merito, essendo intercorso un accordo tra le parti in relazione al compenso di ciascuna perizia eseguita.
Il professionista che aveva agito in giudizio, nel proporre ricorso per Cassazione avverso la pronuncia del Giudice dell’impugnazione, depositava il decreto di ammissione provvisoria al patrocinio a spese dello Stato deliberato dal proprio Consiglio dell’Ordine degli Avvocati. Stante la richiesta di rigetto del ricorso e di revoca dell’ammissione provvisoria al gratuito patrocinio avanzata dal Procuratore Generale, gli atti venivano trasmessi al Primo Presidente e quindi assegnati alle Sezioni Unite, ritenendosi necessario risolvere la questione di diritto – sulla quale si erano formati due inconciliabili orientamenti delle Sezioni Semplici – relativa al potere della Suprema Corte di procedere alla revoca del provvedimento di ammissione al patrocinio a spese dello Stato.
LA DECISIONE. La Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con sentenza n. 4315 depositata in data 20.2.2020, ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso, condannando parte ricorrente non solo al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, ma anche al risarcimento dei danni ai sensi dell’art. 96 c.p.c., nonché al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato.
Vagliata anzitutto la manifesta infondatezza di tutti i motivi di ricorso (in particolare quanto al motivo relativo alla ritenuta sussistenza di abuso del processo per illecito frazionamento della domanda, per essere la decisione del Tribunale di Napoli conforme al principio di diritto già affermato dalle stesse Sezioni Unite), e la condotta processuale del ricorrente connotata da colpa grave, tale da integrare un abuso del processo, le Sezioni Unite hanno quindi preso in esame la questione di diritto rimessa dalla Sezione Semplice al fine di stabilire se la “Suprema Corte possa provvedere, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 136, alla revoca del provvedimento di ammissione del ricorrente al patrocinio a spese dello Stato ovvero se a tale revoca debba provvedere il giudice di merito”.
Dopo aver ripercorso le tappe evolutive dell’istituto del patrocinio a spese dello Stato, oggi regolato dal D.P.R. 115/2002, ed evidenziato che la sua ammissione “è disposta, su istanza dell’interessato, dal Consiglio dell’ordine degli avvocati “in via anticipata e provvisoria” (art. 126 T.U.S.G.), sulla base della sola documentazione presentata dal richiedente” e sempre che sussistano i due presupposti richiesti (limite di reddito e non manifesta infondatezza delle pretese azionate), le Sezioni Unite ne hanno approfonditamente analizzato la disciplina. In particolare, quanto alla revoca del decreto di ammissione da parte del Giudice, la stessa può essere disposta qualora intervengano nel corso del processo modifiche alle condizioni reddituali del richiedente (con efficacia ex nunc) ovvero nel caso in cui risultino insussistenti i requisiti per l’ammissione o l’interessato abbia agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave (in questo caso con efficacia ex tunc) (ex art. 136 D.P.R. 115/2002). In entrambi i casi, il giudizio sulla sussistenza dei presupposti per la revoca dell’ammissione al patrocinio è indipendente dal giudizio sulla fondatezza del ricorso spettante alla Corte di Cassazione e la revoca deve essere disposta con autonomo provvedimento, adottabile in ogni tempo allorquando vengano meno i presupposti richiesti.
Sulla base di tali argomentazioni e poiché: alla Corte di Cassazione non possono essere attribuiti compiti estranei alla funzione della c.d. nomofilachia se non in forza di espressa previsione di legge; gli accertamenti di fatto e le valutazioni di merito che implica il provvedimento di ammissione travalicano le funzioni attribuiti alla Suprema Corte; la revoca è sottoposta ad un autonomo regime impugnatorio (l’opposizione di cui all’art. 170 D.P.R 115/2002, ovvero il ricorso al capo dell’ufficio giudiziario cui appartiene il magistrato che ha emesso il provvedimento impugnato), le Sezioni Unite hanno enunciato il seguente principio di diritto:
In tema di patrocinio a spese dello Stato nel processo civile, la competenza a provvedere sulla revoca del provvedimento di ammissione al detto patrocinio spetta, per il giudizio di cassazione, al giudice di rinvio ovvero – nel caso di mancato rinvio – al giudice che ha pronunciato il provvedimento impugnato“. – “Salvo il caso in cui la causa sia stata rimessa al giudice di rinvio, il giudice che ha pronunciato il provvedimento impugnato, ricevuta copia della sentenza della Corte di cassazione ai sensi dell’art. 388 c.p.c., è tenuto a valutare la sussistenza delle condizioni previste dall’art. 136 T.U.S.G. per la revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato cui una delle parti sia stata ammessa“.
Nella medesima pronuncia, la Suprema Corte, con un’articolata esposizione, enuncia altresì specifici principi di diritto quanto ai presupposti per il raddoppio del contributo unificato (c.d. doppio contributo), avente natura di debito tributario e funzione anche preventivo-deterrente:
La debenza di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione è normativamente condizionata a “due presupposti”, il primo dei quali di natura processuale – è costituito dall’aver il giudice adottato una pronuncia di integrale rigetto o di inammissibilità o di improcedibilità dell’impugnazione, mentre il secondo – appartenente al diritto sostanziale tributario – consiste nella sussistenza dell’obbligo della parte che ha proposto impugnazione di versare il contributo unificato iniziale con riguardo al momento dell’iscrizione della causa a ruolo. L’attestazione del giudice dell’impugnazione, ai sensi all’art. 13, comma 1 quater, secondo periodo, T.U.S.G., riguarda solo la sussistenza del primo presupposto, mentre spetta all’amministrazione giudiziaria accertare la sussistenza del secondo“;
Il giudice dell’impugnazione non è tenuto a dare atto della non sussistenza dei presupposti per il raddoppio del contributo unificato quando il tipo di pronuncia non è inquadrabile nei tipi previsti dalla norma (pronuncia di integrale rigetto o di inammissibilità o di improcedibilità dell’impugnazione), dovendo invece rendere l’attestazione di cui all’art. 13, comma 1-quater, T.U.S.G., solo quando tali presupposti sussistono“;
Poichè l’obbligo di versare un importo “ulteriore” del contributo unificato è normativamente dipendente – ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, T.U.S.G. – dalla sussistenza dell’obbligo della parte impugnante di versare il contributo unificato iniziale, ben può il giudice dell’impugnazione attestare la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento del doppio contributo, condizionandone la effettiva debenza alla sussistenza dell’obbligo di versare il contributo unificato iniziale“;
Il giudice dell’impugnazione, ogni volta che pronunci l’integrale rigetto o l’inammissibilità o la improcedibilità dell’impugnazione, deve dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo del contributo unificato anche nel caso in cui quest’ultimo non sia stato inizialmente versato per una causa suscettibile di venir meno (come nel caso di ammissione della parte al patrocinio a spese dello Stato); mentre può esimersi dalla suddetta attestazione quando la debenza del contributo unificato iniziale sia esclusa dalla legge in modo assoluto e definitivo“.
Facendo applicazione dei suesposti principi di diritto, la Suprema Corte nella sua composizione a Sezioni Unite, ha ritenuto spetti al Tribunale di Napoli, quale giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata, ogni determinazione circa l’eventuale determinazione dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, così come spetta all’amministrazione giudiziaria “verificare la debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento“.

Cass. S.U. 4315 2020

CANCELLAZIONE DALL’ALBO PROFESSIONALE DEGLI AVVOCATI PER MANCANZA DI REQUISITI: LE SEZIONI UNITE CONFERMANO CHE TRATTASI DI PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO

IL CASO. Una legale iscritta all’Ordine degli avvocati di Caltagirone, in possesso del titolo di avvocato rilasciato in Romania dall’U.N.B.R. (struttura “Bota”), impugnava, innanzi il Consiglio nazionale Forense, la delibera del COA di Caltagirone che disponeva la sua cancellazione dall’elenco speciale degli avvocati stabilizzati ex D.Lgs. 96/2001.

Il Consiglio Nazionale Forense  rigettava il ricorso  con sentenza n. 194 depositata in data 21 dicembre 2018.

LA DECISIONE. L’interessata ricorreva alle Sezioni Unite della Suprema Corte con ben diciassette motivi, chiedendo anche la sospensione della delibera e la trasmissione alla Corte di Giustizia delle questioni pregiudiziali e alla Corte Costituzionale per quelle di legittimità. Resiste con controricorso il COA di Caltagirone.

Tutti e diciassette i motivi sono stati respinti dalla Corte Suprema che, richiamando un precedente del 2019 non massimato, ha ribadito che le funzioni esercitate in materia di cancellazione degli iscritti dagli albi professionali dai Consigli locali dell’Ordine degli avvocati e il relativo procedimento, hanno natura amministrativa e non disciplinare: “Il provvedimento di cancellazione dall’albo professionale per mancanza di un requisito necessario per l’iscrizione, emesso dal Consiglio dell’Ordine degli avvocati in osservanza della procedura di cui all’art. 17, comma 12, della l. n. 247 del 2012, non ha natura disciplinare e non richiede la preventiva citazione a comparire dell’interessato, (prevista, invece, ai fini dell’irrogazione delle sanzioni disciplinari, dall’art.45 del r.d.l. n. 1578 del 1933), atteso, che, ai sensi del comma 3 del detto art. 17, la normativa sul procedimento disciplinare è chiamata ad integrare quella sulla procedura di accertamento dei requisiti per l’iscrizione all’albo solo in quanto quest’ultima non contenga una regolamentazione specifica incompatibile con la prima; nella specie, la specifica disciplina dettata dal citato comma 12 dell’art.17 della l. n. 247 del 2012 – nel prevedere che il Consiglio dell’Ordine, prima di deliberare la cancellazione, ha l’obbligo di invitare l’iscritto a presentare le sue osservazioni, provvedendo altresì ad ascoltarlo personalmente ove egli ne faccia richiesta – è incompatibile con quella dettata per la procedura disciplinare, che impone sempre e comunque la citazione dell’incolpato, né può ritenersi lesiva del principio del contraddittorio, in quanto l’invito a comparire costituisce pur sempre un obbligo per il COA, anche se nella sola ipotesi in cui l’iscritto ne faccia richiesta.”

In sostanza la disciplina prevista è specifica e non può sostenersi che leda il principio del contraddittorio perché prima di deliberare , il COA verifica se l’iscritto ha fatto richiesta di essere sentito, essendo la scelta dell’eventuale partecipazione rimessa all’iniziativa dell’interessato.

Infine, relativamente alla censura mediante la quale veniva denunciato il difetto di giurisdizione sull’istanza di ricusazione e la nullità della sentenza stante l’illegittimità delle ragioni addotte a sostegno del rigetto, quali l’applicabilità del principio di imparzialità al solo giudice effettivamente designato, e la mancanza di un interesse diretto della ricorrente alla circostanza dell’apertura del procedimento di commissariamento dell’Ordine di Caltagirone, la Suprema Corte affermava che: “In tema di cancellazione del professionista dall’albo degli avvocati, la circostanza che il Consiglio Nazionale Forense, nella sua funzione di indirizzo e di coordinamento dei vari Consigli dell’ordine territoriali, abbia sollecitato gli stessi all’adozione di provvedimenti di cancellazione, non costituisce violazione dell’art. 111 Cost. sotto il profilo del difetto di terzietà, giacché le norme che disciplinano, rispettivamente, la nomina dei componenti del C.N.F. ed il procedimento di cancellazione dell’iscritto offrono sufficienti garanzie con riguardo all’indipendenza del giudice ed alla imparzialità dei giudizi; deve pertanto ritenersi legittimo il riconoscimento ad un organismo a rilevanza pubblica, quale il Consiglio Nazionale Forense (deputato ad emanare provvedimenti organizzativi e di indirizzo per i propri iscritti), del potere di decidere sulle impugnazioni proposte avverso i provvedimenti dei Consigli locali che formalmente si fondino su proprie disposizioni di carattere generale.”

Cass. Civ. S.U. n. 34429_2019

LA REVOCATORIA A CASCATA: IMPLICAZIONI PRATICHE DI UN “CASO DI SCUOLA”

Il Tribunale di Vicenza con sentenza n.2478 depositata in data 29.11.2019 (Trib. Vicenza 2478_2019), affronta il tema della revocatoria a cascata, fattispecie che si realizza quando l’esperimento della seconda azione, a cascata appunto, è subordinata al positivo esito della prima.

Il caso deciso riguardava l’esperimento di un’azione ex art. 2901 c.c., da parte del Curatore fallimentare di una società, volta a neutralizzare gli effetti di un’iscrizione ipotecaria eseguita in favore di una Banca, a seguito del conferimento di un compendio immobiliare, attraverso il quale la predetta società era entrata nella compagine sociale di altra società sottoscrivendo un aumento di capitale, e successivamente ne era stata estromessa senza ricevere alcun corrispettivo.

Tale evento era risultato decisivo nel condurre al fallimento della società, dichiarato dallo stesso Tribunale  di Vicenza pochi mesi dopo.

La Curatela, per recuperare il compendio, in primo luogo, esperiva vittoriosamente un’azione revocatoria fallimentare, ex art. 67, comma 1, n. 1, l.f. allo scopo di veder dichiarare inefficace nei confronti della massa dei creditori l’atto di conferimento. La decisione però, pur rendendo inefficace il conferimento nei confronti della massa dei creditori, non “sterilizzava” l’iscrizione ipotecaria, rendendo necessario l’esperimento di una ulteriore azione revocatoria, questa volta ai sensi dell’art. 2901 c.c., che anche in tale caso veniva accolta dal Tribunale.

La sentenza in commento presenta due profili di particolare rilevanza sui quali è opportuno soffermarsi.

In primo luogo si evidenzia come il Fallimento abbia esercitato a cascata, non tanto un’azione revocatoria fallimentare, così come era stato fatto per ottenere la dichiarazione di inefficacia nei confronti della massa dei creditori dell’atto di conferimento del  compendio immobiliare, ma un’azione revocatoria ordinaria.

Per comprendere tale scelta è necessario indagare sul rapporto tra l’azione revocatoria fallimentare e quella ex art. 2901 c.c.. Secondo quanto sostenuto dalla migliore giurisprudenza [1], infatti, l’art. 67 l.f. non sarebbe applicabile agli atti di acquisto da parte dei subacquirenti con l’inevitabile conseguenza che l’azione revocatoria a cascata dovrebbe necessariamente presentare i caratteri dell’azione revocatoria ordinaria, con conseguente aggravio dell’onere della prova in capo alla Curatela, tenuta a dimostrare, come ha fatto nel caso in esame, anche la malafede del terzo. E’ necessario, però, evidenziare come tale assetto presenti anche un elemento di favore per chi deve agire, dato dal termine di prescrizione quinquennale dell’azione ex art. 2901 c.c..

La seconda questione, invece, attiene all’oggetto dell’azione in parola, che riguarda la richiesta di inefficacia non tanto di un atto di trasferimento, ma bensì di un atto di costituzione di garanzia reale.

In tale caso non è sufficiente indagare sul disposto dell’art. 2901 c.c., che si limita, laconicamente, ad indicare, quali atti suscettibili di essere revocati, quelli “di disposizione del patrimonio”, ma è necessario guardare alla giurisprudenza, che, oramai consolidata sul punto, ha specificato l’estensione operativa di tale inciso, affermando che “ai sensi dell’art. 2901, comma 1, c.c. così come interpretato dalla prevalente giurisprudenza di legittimità per “atto di disposizione” deve intendersi l’atto con cui il debitore dismette la proprietà di un cespite ovvero rinunzia ad un diritto, nonché quello con cui conferisce dei beni in un fondo patrimoniale ovvero concede una garanzia reale (pegno o ipoteca) o attribuisce un diritto reale di godimento.” [2]


[1] Cass. Civ., Sez. VI, n. 19918 del 9.8.2017 in Giustizia Civile Massimario

[2] Tribunale di Monza, Sez. I, n. 2306 del 19.8.2016 in Redazione Giuffrè