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IL CURATORE FALLIMENTARE ASSUME LA QUALIFICA DI “IMPRENDITORE” OGNIQUALVOLTA ESERCITI UNA AZIONE GIA’ NEL PATRIMONIO DEL FALLITO QUANDO LA SOCIETA’ ERA IN BONIS

IL CASO. Il Tribunale di Trani, accogliendo la domanda della Curatela, condannava una società al pagamento di una somma derivante da un credito di natura contrattuale sorto quando la fallita era ancora in bonis.

Con atto di appello la società, impugnando la sentenza di primo grado, evidenziava di aver pagato le fatture emesse dalla fallita a mezzo di assegni bancari. La Corte d’Appello di Bari, però, confermando la sentenza di prime cure, escludeva che le fatture e le note di credito emesse dalla appellata a comprova delle proprie allegazioni potessero avere forza probatoria, sia in difetto del requisito della certezza della data , ai sensi dell’art. 2704 c.c. , sia con riguardo alla prova dei pagamenti verso l’impresa fallita, atteso che gli artt. 2709 e 2710 c.c., che conferiscono efficacia probatoria, nei rapporti tra imprenditori, ai libri e alle altre scritture di unilaterale formazione, non trovavano applicazione nei confronti di un soggetto non avente tale qualità, quale il curatore del fallimento.

LA DECISIONE. La soccombente proponeva gravame avanti alla Suprema Corte. Il ricorso articolato su quattro motivi veniva accolto.

Di centrale importanza risultava il primo motivo che, nella sostanza, censurava la pronunzia nella parte in cui non applicava la regola iuris secondo cui la posizione della Curatela era equivalente a quella del fallito nell’esercizio di diritti già nel patrimonio di quest’ultimo.

Al riguardo la Corte osserva che la posizione della Curatela è differenziata a seconda che egli rappresenti gli interessi della collettività dei creditori ovvero diritti di spettanza del fallito nei confronti dei terzi. Nel primo caso, infatti, egli è terzo, mentre nel secondo subentra nella medesima posizione, facendone valere i relativi diritti, così come quando agisca per la riscossione di un credito del fallito.

Indispensabile puntualizzare che, comunque, questo non muta l’obiettivo del curatore che è resta quello di ricostruire il patrimonio originario del fallito e pertanto, anche se non formalmente, come nel caso che ci occupa, egli agisce sempre nell’interesse della massa dei creditori. 

La questione, pertanto, veniva risolta mediante la formulazione del principio di diritto secondo cui: “Il curatore fallimentare che proponga una domanda di adempimento dell’obbligazione contratta dal terzo nei confronti dell’imprenditore in epoca antecedente al fallimento esercita un’azione già esistente nel patrimonio del fallito, subentrando, conseguentemente, nella stessa posizione sostanziale e processuale di quest’ultimo, indipendentemente dal dissesto successivamente verificatosi; ne consegue che il terzo convenuto in giudizio dal curatore può opporre tutte le eccezioni che avrebbe potuto opporre all’imprenditore fallito, comprese le prove documentali da questi provenienti, senza i limiti di cui agli artt. 2704 ss. c.c. e senza che sia di ostacolo l’art. 2709 c.c.

In conclusione questa pronunzia ha il pregio di riproporre la questione della qualifica del Curatore nell’esercizio di una azione già nel patrimonio del fallito quando la società era in bonis, ponendosi in continuità con l’orientamento attualmente maggioritario [1], anche se la giurisprudenza sul punto rimane ondivaga [2].


[1] Cass. Civ., Sez. I, n.321 del 9.1.2013 in Giustizia Civile Massimario; Cass. Civ., Sez. I, n.18059 del 8.9.2004 in Giustizia Civile Massimario

[2] Cass. Civ.,  Sez. I, n.10081 del 9.5.2011 in Giustizia Civile Massimario; Cass. Civ., Sez. I, n.1543 del 26.1.2006 in Giustizia Civile Massimario

Cass. Civ. Sez. I n. 30446_2019