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Sentenza di revocatoria fallimentare ed imposta di registro.

Il caso

Con la sentenza n. 450/2018 la Commissione Tributaria Provinciale di Venezia ha dichiarato applicabile, ai sensi della lettera e), comma 1, articolo 8 della Tariffa, Parte I, allegata al D.P.R. n. 131/1986, l’imposta di registro in misura fissa, in luogo di quella proporzionale con aliquota del 3%, alla sentenza di revocatoria fallimentare avente ad oggetto la restituzione di somme di denaro.

La Commissione ha affermato, infatti, si trattava di semplice dichiarazione di inefficacia dei pagamenti revocati e che, inoltre, la condanna alla restituzione non faceva venir meno il credito che era stato estinto con il pagamento dichiarato successivamente inefficace che rimaneva comunque in capo alla ricorrente che lo poteva far valere nel concorso fallimentare.

Osservazioni

La sentenza in commento si pone in contrasto con l’orientamento giurisprudenziale dominante, secondo il quale la sentenza di accoglimento della revocatoria fallimentare di un pagamento eseguito dal fallito è soggetta all’aliquota proporzionale ai sensi della lettera b), comma 1, articolo 8 della Tariffa, Parte I, allegata al D.P.R. n. 131/1986 mentre andrebbe applicata l’imposta fissa per la dichiarazione di inefficacia di altri negozi giuridici (tipo contratti di compravendita od altro).

La Commissione, nel caso in esame, ha dimostrato di aderire, sebbene mai esplicitandolo formalmente, ad un orientamento risalente e minoritario, espresso da ultimo nella sentenza n. 306 del 27.09.2001 della Commissione Tributaria Regionale di Napoli, in Banca borsa tit. cred. 2003, II, 224, secondo il quale l’imposta fissa sarebbe applicabile anche nel caso di restituzione di somme di denaro.

La sentenza in commento trae le mosse da una particolare esegesi della citata lettera e), comma 1, articolo 8, secondo cui si applica l’imposta fissa alle sentenze “che dichiarano la nullità o pronunciano l’annullamento di un atto, ancorchè portanti condanna alla restituzione di denaro o beni, o la risoluzione di un contratto” (grassetto dello scrivente, n.d.r.).

Per i giudici, quindi, un primo passaggio necessario per stabilire se vada applicata l’imposta fissa o l’imposta proporzionale non è dato tanto dalla suddivisione tra sentenza di revocatoria fallimentare relativa ad un bene o al pagamento di una somma di denaro, così come recentemente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità con le pronunzie n. 31277 del 04.12.2018, in Giust. Civ. Mass., 2019, e n. 16814 del 07.07.2017, in Giust. Civ. Mass., 2017, ma piuttosto dal fatto che da questa derivi nullità, annullamento o risoluzione.

Quindi, secondo la Commissione Tributaria di Venezia, potrà applicarsi l’imposta fissa in tutti i casi in cui, indipendentemente si tratti di sentenza revocatoria fallimentare avente ad oggetto denaro o beni, vi sia una dichiarazione di nullità, la pronuncia di annullamento di un atto, o si tratti di risoluzione di un contratto.

Al riguardo, però, appare necessaria una ulteriore osservazione, sempre attinente all’analisi del dato testuale della citata lettera e) dell’articolo 8.

Dalla lettura della norma, infatti, si evince come il legislatore, abbia scrupolosamente elencato le specifiche ipotesi di applicazione dell’aliquota fissa, non facendo riferimento alcuno al caso di revocatoria ed anzi  riferendosi esclusivamente a fattispecie in cui la pronuncia interviene sul sinallagma genetico o funzionale del contratto mentre nel caso della revocatoria il contratto fra le parti resta valido ed efficace.

Nel caso di nullità o annullamento di un atto, o di risoluzione di un contratto, infatti, lo squilibrio che tocca il nesso di reciprocità è tale da caducare  il negozio giuridico, mentre la sfera di operatività della pronunzia revocatoria si limita ad investire non tanto la sostanza dell’atto negoziale ma piuttosto gli effetti che da questa derivano.   

L’assenza di esplicito richiamo e la diversa natura delle azioni cui il legislatore fa riferimento, pertanto, sembrerebbe ricondurre alla volontà di escludere tale previsione dal novero dei casi per cui è ammessa l’applicazione dell’imposta di registro in misura fissa. 

A questo primo elemento, però, la Commissione ne aggiunge uno ulteriore. Invero, per giustificare la scelta di applicare la tassa fissa si afferma che “pur dovendo la Ricorrente restituire le somme di denaro revocate a motivo del Fallimento, la condanna alla restituzione non fa venir meno il credito che rimane comunque a favore della ricorrente nei confronti del Fallimento”.

Tale passaggio, che chiude la parte motiva, svela la vera ragione per la quale sia stata ritenuta applicabile al caso in esame l’imposta fissa, e cioè lo scrutinio di quelle che sono le conseguenze derivanti dal venir meno dell’atto o del contratto.

Emerge, anche in tal caso, l’implicito richiamo alla giurisprudenza minoritaria che, ricercando appunto la ratio della previsione di cui alla lettera e) articolo 8, sostiene che non è da applicarsi l’imposta proporzionale ogni qual volta ci si trovi alla presenza di un atto accessorio rispetto ad una pronuncia principale, e che comporti uno spostamento patrimoniale che non costituisce una espressione o un indice di reale capacità contributiva.

Quanto appena affermato, però, implica la soluzione di due ulteriori questioni, tra loro strettamente connesse.

La prima riguarda l’individuazione della pronuncia cosiddetta  accessoria, mentre la seconda attiene alla specificazione degli indici secondo cui si realizzerebbe un movimento di ricchezza.

Al riguardo, l’orientamento seguito dalla Commissione, risolve tali quesiti osservando come la ratio della lettera e), articolo 8, sarebbe in definitiva quella di “applicare l’imposta fissa a quegli spostamenti patrimoniali che, avendo natura meramente accessoria rispetto a determinati provvedimenti giurisdizionali, non sono espressione o indice di reale capacità contributiva, che si ha solo in presenza di un trasferimento in senso economico, ma non quando questo debba considerarsi tamquam non esset a seguito di provvedimento giurisdizionale che in definitiva lo ha privato del suo valore economico” (Comm. trib. reg. Napoli, sez. XLIV, n. 306 del 27.09.2001)

Di conseguenza, il trasferimento tanto di un bene quanto di denaro, che sia oggetto dell’atto che successivamente è stato dichiarato nullo o annullato, o del contratto risolto, si troverebbe privato del valore economico proprio dalla stessa pronuncia principale, con la conseguenza che la successiva restituzione, che quindi individua l’effetto della pronuncia cosiddetta  accessoria, non configurerebbe un vero e proprio spostamento patrimoniale, per cui il movimento di ricchezza risulterebbe solo apparente.

In conclusione, secondo la CTP di Venezia, la scelta circa il tipo di imposta da applicare si decide proprio sulle conseguenze derivanti dalle sentenze di nullità, annullamento di un atto o risoluzione di un contratto.

Tale lettura, però, si scontra con quanto sostenuto dalla giurisprudenza di legittimità prevalente che distingue tra revocatoria fallimentare avente ad oggetto un bene ovvero una somma di denaro.

Nel primo caso si sostiene l’applicabilità dell’imposta di registro a tassa fissa sul presupposto che l’azione revocatoria sancisca l’inefficacia dell’atto traslativo del bene e non il suo annullamento o declaratoria di nullità e che pertanto quell’atto sia comunque esistente nell’universum jus seppur non spieghi efficacia nei confronti del fallimento restando valido fra le parti, , con l’effetto di rendere possibile l’esecuzione collettiva sul bene alienato e non già di ritrasferirla sul bene del fallito,  , mentre nel caso di restituzione di somme di denaro si applicherebbe l’imposta proporzionale perché il denaro si sarebbe confuso nel patrimonio del creditore – convenuto in revocatoria e quindi la sentenza impone la restituzione della somma di denaro come tantundem e non tanto dello specifico bene, provocando un movimento di ricchezza.

Una attenta lettura dell’art. 70 della legge fallimentare, rubricato “Effetti della revocazione” che, nel suo comma 2, afferma “colui che, per effetto della revoca prevista dalle disposizioni precedenti, ha restituito quanto aveva ricevuto è ammesso al passivo fallimentare per il suo eventuale credito” (grassetto dello scrivente, n.d.r.), porterebbe a suffragare tale conclusione.

E’ opportuno evidenziare, anzitutto, come in tale caso la vera questione non sia rappresentata tanto dal fatto che la restituzione sia astrattamente finalizzata a ricostituire la situazione antecedente, che rappresenterebbe nella sostanza la ratio della revocatoria, quanto piuttosto dallo scrutinio avente ad oggetto la natura dell’atto che provoca tale effetto.

La sentenza revocatoria, infatti, avendo efficacia costituiva, è per sua intrinseca natura riconducibile ad un movimento di ricchezza, poiché l’atto d’impulso, costituito appunto dalla pronunzia, crea una situazione giuridica nuova, che certamente non può qualificare lo spostamento economico tamquam non esset.In conclusione, anche secondo tale argomentare, sarebbe preferibile l’applicazione dell’imposta in misura proporzionale in luogo di quella fissa.

Conclusione

Alla luce di quanto finora esposto, le conseguenze derivanti dal modus operandi seguito dai Giudici veneziani per individuare il tipo d’imposta applicabile, si svilupperebbero in un duplice ordine di motivi.

In primo luogo imporrebbe al giudicante uno scrutinio ben più approfondito rispetto a quello attualmente richiesto dalla giurisprudenza maggioritaria, che si limita ad una lettura acritica della norma, che prevede, nella scelta dell’imposta da applicare, la semplice distinzione tra revocatoria avente ad oggetto beni o somme di denaro, che indubbiamente avrebbe come naturale conseguenza quella di lasciare al giudice una maggiore discrezionalità.

In secondo luogo, infine, considerata la revocatoria fallimentare di pagamento di somma di denaro, nega un effettivo movimento di ricchezza sulla base del fatto che la condanna alla restituzione di quanto ricevuto dal creditore comporterebbe un mero ripristino della situazione quo ante, ponendosi, quindi, in contrapposizione con la giurisprudenza prevalente. (ex multis Cass. Civ., Sez. Trib., n. 31277 del 04.12.2018, in Giust. Civ. Massim., 2019; Cass. Civ., Sez. Trib., n. 16814 del 07.07.2017, in Giust. Civ. Massim., 2017)

Giovanni Valotto

Marco Toso