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Sentenza di revocatoria fallimentare ed imposta di registro.

Il caso

Con la sentenza n. 450/2018 la Commissione Tributaria Provinciale di Venezia ha dichiarato applicabile, ai sensi della lettera e), comma 1, articolo 8 della Tariffa, Parte I, allegata al D.P.R. n. 131/1986, l’imposta di registro in misura fissa, in luogo di quella proporzionale con aliquota del 3%, alla sentenza di revocatoria fallimentare avente ad oggetto la restituzione di somme di denaro.

La Commissione ha affermato, infatti, si trattava di semplice dichiarazione di inefficacia dei pagamenti revocati e che, inoltre, la condanna alla restituzione non faceva venir meno il credito che era stato estinto con il pagamento dichiarato successivamente inefficace che rimaneva comunque in capo alla ricorrente che lo poteva far valere nel concorso fallimentare.

Osservazioni

La sentenza in commento si pone in contrasto con l’orientamento giurisprudenziale dominante, secondo il quale la sentenza di accoglimento della revocatoria fallimentare di un pagamento eseguito dal fallito è soggetta all’aliquota proporzionale ai sensi della lettera b), comma 1, articolo 8 della Tariffa, Parte I, allegata al D.P.R. n. 131/1986 mentre andrebbe applicata l’imposta fissa per la dichiarazione di inefficacia di altri negozi giuridici (tipo contratti di compravendita od altro).

La Commissione, nel caso in esame, ha dimostrato di aderire, sebbene mai esplicitandolo formalmente, ad un orientamento risalente e minoritario, espresso da ultimo nella sentenza n. 306 del 27.09.2001 della Commissione Tributaria Regionale di Napoli, in Banca borsa tit. cred. 2003, II, 224, secondo il quale l’imposta fissa sarebbe applicabile anche nel caso di restituzione di somme di denaro.

La sentenza in commento trae le mosse da una particolare esegesi della citata lettera e), comma 1, articolo 8, secondo cui si applica l’imposta fissa alle sentenze “che dichiarano la nullità o pronunciano l’annullamento di un atto, ancorchè portanti condanna alla restituzione di denaro o beni, o la risoluzione di un contratto” (grassetto dello scrivente, n.d.r.).

Per i giudici, quindi, un primo passaggio necessario per stabilire se vada applicata l’imposta fissa o l’imposta proporzionale non è dato tanto dalla suddivisione tra sentenza di revocatoria fallimentare relativa ad un bene o al pagamento di una somma di denaro, così come recentemente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità con le pronunzie n. 31277 del 04.12.2018, in Giust. Civ. Mass., 2019, e n. 16814 del 07.07.2017, in Giust. Civ. Mass., 2017, ma piuttosto dal fatto che da questa derivi nullità, annullamento o risoluzione.

Quindi, secondo la Commissione Tributaria di Venezia, potrà applicarsi l’imposta fissa in tutti i casi in cui, indipendentemente si tratti di sentenza revocatoria fallimentare avente ad oggetto denaro o beni, vi sia una dichiarazione di nullità, la pronuncia di annullamento di un atto, o si tratti di risoluzione di un contratto.

Al riguardo, però, appare necessaria una ulteriore osservazione, sempre attinente all’analisi del dato testuale della citata lettera e) dell’articolo 8.

Dalla lettura della norma, infatti, si evince come il legislatore, abbia scrupolosamente elencato le specifiche ipotesi di applicazione dell’aliquota fissa, non facendo riferimento alcuno al caso di revocatoria ed anzi  riferendosi esclusivamente a fattispecie in cui la pronuncia interviene sul sinallagma genetico o funzionale del contratto mentre nel caso della revocatoria il contratto fra le parti resta valido ed efficace.

Nel caso di nullità o annullamento di un atto, o di risoluzione di un contratto, infatti, lo squilibrio che tocca il nesso di reciprocità è tale da caducare  il negozio giuridico, mentre la sfera di operatività della pronunzia revocatoria si limita ad investire non tanto la sostanza dell’atto negoziale ma piuttosto gli effetti che da questa derivano.   

L’assenza di esplicito richiamo e la diversa natura delle azioni cui il legislatore fa riferimento, pertanto, sembrerebbe ricondurre alla volontà di escludere tale previsione dal novero dei casi per cui è ammessa l’applicazione dell’imposta di registro in misura fissa. 

A questo primo elemento, però, la Commissione ne aggiunge uno ulteriore. Invero, per giustificare la scelta di applicare la tassa fissa si afferma che “pur dovendo la Ricorrente restituire le somme di denaro revocate a motivo del Fallimento, la condanna alla restituzione non fa venir meno il credito che rimane comunque a favore della ricorrente nei confronti del Fallimento”.

Tale passaggio, che chiude la parte motiva, svela la vera ragione per la quale sia stata ritenuta applicabile al caso in esame l’imposta fissa, e cioè lo scrutinio di quelle che sono le conseguenze derivanti dal venir meno dell’atto o del contratto.

Emerge, anche in tal caso, l’implicito richiamo alla giurisprudenza minoritaria che, ricercando appunto la ratio della previsione di cui alla lettera e) articolo 8, sostiene che non è da applicarsi l’imposta proporzionale ogni qual volta ci si trovi alla presenza di un atto accessorio rispetto ad una pronuncia principale, e che comporti uno spostamento patrimoniale che non costituisce una espressione o un indice di reale capacità contributiva.

Quanto appena affermato, però, implica la soluzione di due ulteriori questioni, tra loro strettamente connesse.

La prima riguarda l’individuazione della pronuncia cosiddetta  accessoria, mentre la seconda attiene alla specificazione degli indici secondo cui si realizzerebbe un movimento di ricchezza.

Al riguardo, l’orientamento seguito dalla Commissione, risolve tali quesiti osservando come la ratio della lettera e), articolo 8, sarebbe in definitiva quella di “applicare l’imposta fissa a quegli spostamenti patrimoniali che, avendo natura meramente accessoria rispetto a determinati provvedimenti giurisdizionali, non sono espressione o indice di reale capacità contributiva, che si ha solo in presenza di un trasferimento in senso economico, ma non quando questo debba considerarsi tamquam non esset a seguito di provvedimento giurisdizionale che in definitiva lo ha privato del suo valore economico” (Comm. trib. reg. Napoli, sez. XLIV, n. 306 del 27.09.2001)

Di conseguenza, il trasferimento tanto di un bene quanto di denaro, che sia oggetto dell’atto che successivamente è stato dichiarato nullo o annullato, o del contratto risolto, si troverebbe privato del valore economico proprio dalla stessa pronuncia principale, con la conseguenza che la successiva restituzione, che quindi individua l’effetto della pronuncia cosiddetta  accessoria, non configurerebbe un vero e proprio spostamento patrimoniale, per cui il movimento di ricchezza risulterebbe solo apparente.

In conclusione, secondo la CTP di Venezia, la scelta circa il tipo di imposta da applicare si decide proprio sulle conseguenze derivanti dalle sentenze di nullità, annullamento di un atto o risoluzione di un contratto.

Tale lettura, però, si scontra con quanto sostenuto dalla giurisprudenza di legittimità prevalente che distingue tra revocatoria fallimentare avente ad oggetto un bene ovvero una somma di denaro.

Nel primo caso si sostiene l’applicabilità dell’imposta di registro a tassa fissa sul presupposto che l’azione revocatoria sancisca l’inefficacia dell’atto traslativo del bene e non il suo annullamento o declaratoria di nullità e che pertanto quell’atto sia comunque esistente nell’universum jus seppur non spieghi efficacia nei confronti del fallimento restando valido fra le parti, , con l’effetto di rendere possibile l’esecuzione collettiva sul bene alienato e non già di ritrasferirla sul bene del fallito,  , mentre nel caso di restituzione di somme di denaro si applicherebbe l’imposta proporzionale perché il denaro si sarebbe confuso nel patrimonio del creditore – convenuto in revocatoria e quindi la sentenza impone la restituzione della somma di denaro come tantundem e non tanto dello specifico bene, provocando un movimento di ricchezza.

Una attenta lettura dell’art. 70 della legge fallimentare, rubricato “Effetti della revocazione” che, nel suo comma 2, afferma “colui che, per effetto della revoca prevista dalle disposizioni precedenti, ha restituito quanto aveva ricevuto è ammesso al passivo fallimentare per il suo eventuale credito” (grassetto dello scrivente, n.d.r.), porterebbe a suffragare tale conclusione.

E’ opportuno evidenziare, anzitutto, come in tale caso la vera questione non sia rappresentata tanto dal fatto che la restituzione sia astrattamente finalizzata a ricostituire la situazione antecedente, che rappresenterebbe nella sostanza la ratio della revocatoria, quanto piuttosto dallo scrutinio avente ad oggetto la natura dell’atto che provoca tale effetto.

La sentenza revocatoria, infatti, avendo efficacia costituiva, è per sua intrinseca natura riconducibile ad un movimento di ricchezza, poiché l’atto d’impulso, costituito appunto dalla pronunzia, crea una situazione giuridica nuova, che certamente non può qualificare lo spostamento economico tamquam non esset.In conclusione, anche secondo tale argomentare, sarebbe preferibile l’applicazione dell’imposta in misura proporzionale in luogo di quella fissa.

Conclusione

Alla luce di quanto finora esposto, le conseguenze derivanti dal modus operandi seguito dai Giudici veneziani per individuare il tipo d’imposta applicabile, si svilupperebbero in un duplice ordine di motivi.

In primo luogo imporrebbe al giudicante uno scrutinio ben più approfondito rispetto a quello attualmente richiesto dalla giurisprudenza maggioritaria, che si limita ad una lettura acritica della norma, che prevede, nella scelta dell’imposta da applicare, la semplice distinzione tra revocatoria avente ad oggetto beni o somme di denaro, che indubbiamente avrebbe come naturale conseguenza quella di lasciare al giudice una maggiore discrezionalità.

In secondo luogo, infine, considerata la revocatoria fallimentare di pagamento di somma di denaro, nega un effettivo movimento di ricchezza sulla base del fatto che la condanna alla restituzione di quanto ricevuto dal creditore comporterebbe un mero ripristino della situazione quo ante, ponendosi, quindi, in contrapposizione con la giurisprudenza prevalente. (ex multis Cass. Civ., Sez. Trib., n. 31277 del 04.12.2018, in Giust. Civ. Massim., 2019; Cass. Civ., Sez. Trib., n. 16814 del 07.07.2017, in Giust. Civ. Massim., 2017)

Giovanni Valotto

Marco Toso

Cumulo di cause scindibili ed interruzione del giudizio nei confronti di uno soltanto dei litisconsorti: le altre parti non sono gravate dall’onere di riassunzione ed hanno diritto alla prosecuzione del procedimento.

IL CASO. La società Alfa, assumendo l’inadempimento da parte di Beta s.r.l. di un contratto di locazione finanziaria, otteneva dal Tribunale di Bergamo un decreto ingiuntivo contro quest’ultima – in qualità di debitrice principale – nonché contro Gamma e Delta, quali fideiussori.

Con un unico atto di citazione, i tre ingiunti proponevano opposizione avverso il suddetto decreto, contestando sia il merito della pretesa che – limitatamente alla sola posizione dei fideiussori – l’esistenza stessa della garanzia.

A seguito dell’intervenuto fallimento della debitrice principale risultante da memoria depositata dal procuratore degli opponenti in data 20.6.2014, all’udienza del 28.10.2014 il giudizio veniva dichiarato interrotto.

Ne seguiva il deposito – in data 3.12.2014 – di ricorso in riassunzione dei fideiussori, che veniva tuttavia ritenuta tardivo dal Tribunale bergamasco con conseguente declaratoria di estinzione del giudizio.

Tale decisione veniva confermata dalla Corte d’Appello di Brescia.

Avverso tale ultima pronuncia proponevano ricorso per Cassazione i fideiussori, formulando tre motivi di impugnazione: con il primo, lamentavano la violazione dell’art. 103 c.p.c. per aver la Corte d’Appello, pur in presenza di cause scindibili con litisconsorzio facoltativo tra le parti, dichiarato dapprima l’interruzione dell’intero procedimento e, successivamente, l’estinzione del giudizio senza disporre la separazione della causa che vedeva coinvolti i fideiussori, non interessati dall’evento interruttivo; con il secondo motivo, denunciavano la violazione di legge per aver la Corte bresciana ritenuto che l’interruzione si propagasse ai debitori solidali, così determinando il decorso del termine per la riassunzione dalla conoscenza legale dell’evento e non dal provvedimento giudiziale di interruzione; con il terzo motivo denunciavano la nullità della sentenza per violazione di norme processuali.

LA DECISIONE. Con ordinanza n. 8123 del 23.4.2020, la Suprema Corte accoglie il ricorso dei fideiussori, cassando per l’effetto la sentenza impugnata con rinvio al giudice di seconde cure.

Come già affermato in precedenti pronunce – quali l’ordinanza n. 9960/2017 e le sentenze  SS.UU. n. 9686/2013 e n. 15142/2017- gli ermellini ritengono infatti che, in caso di cause connesse scindibili con litisconsorzio facoltativo tra le parti, l’eventuale effetto interruttivo che veda coinvolto uno soltanto dei litisconsorti non si estende anche alle altre parti del procedimento, le quali non sono gravate dall’onere di riassunzione e mantengono il diritto di veder accertate le proprie pretese senza ingiustificate interruzioni e delazioni.  

In conseguenza di tale orientamento, in caso di estinzione parziale del procedimento per mancata o tardiva riassunzione ad opera della parte interessata dall’interruzione, il Giudice “ove non abbia esercitato il potere di separare i procedimenti ex art. 103, comma 2, c.p.c., deve disporre al prosecuzione del processo tra le parti non colpite dall’evento interruttivo che non hanno perso la capacità di stare in giudizio e che, pertanto, non hanno alcun obbligo di riassunzione”.

Tale interpretazione deve, secondo i giudici di legittimità, adottarsi anche nel caso in esame, ove la scindibilità delle cause ed il carattere facoltativo del litisconsorzio non possono ritenersi esclusi dalla circostanza che il debitore principale ed i due fideiussori avessero inizialmente depositato un unico atto di citazione in opposizione ed avessero parzialmente condiviso alcuni motivi di opposizione.

Cass. 8123 – 2020

Ricorso per decreto ingiuntivo e fatture elettroniche: viene meno l’obbligo del deposito dei registri IVA?

IL CASO. Una società per azioni depositava ricorso per la concessione di decreto ingiuntivo avanti il Tribunale di Verona in composizione monocratica, allegando, a riprova del proprio credito relativo alla prestazione di servizi,  fatture elettroniche in formato “xml”.

LA DECISIONE. Il Tribunale, con provvedimento del 29.11.2019, ha accolto il ricorso, ingiungendo alla società convenuta di pagare immediatamente e senza dilazione la somma della quale il ricorrente andava creditore, oltre interessi e spese della procedura.

Il Giudice, infatti, ha ritenuto che le fatture elettroniche in formato “xml” debbano ritenersi del tutto equipollenti all’estratto autentico delle scritture contabili. Ciò per le caratteristiche stesse della fatturazione elettronica e delle modalità di funzionamento del Sistema di Interscambio (SDI) il quale “genera documenti informatici autentici ed immodificabili, che non sono semplici ‘copie informatiche di documenti informatici’, bensì ‘duplicati informatici’ assolutamente indistinguibili dai loro originali”.

D’altronde, poiché il legislatore ha predisposto che “per le cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate tra soggetti residenti o stabiliti nel territorio dello Stato, e per le relative variazioni, sono emesse esclusivamente fatture elettroniche utilizzando il Sistema di Interscambio” (D.lgs. 127/2015, art. 1 co.3) e dal momento che i soggetti obbligati alla emissione delle fatture elettroniche “sono esonerati dall’obbligo di annotazione in apposito registro, di cui agli articoli 23 e 25 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633” (D.lgs. 127/2015, art 1 co.3 ter), deve ritenersi venuto meno per i predetti soggetti passivi IVA l’obbligo di tenere i registri fatture emesse.

Per tale motivo, “poiché è illogico pensare che un’impresa debba tenere delle scritture contabili che non ha l’obbligo di utilizzare”, e poiché, come detto, le fatture “xml” sono equipollenti all’estratto autentico delle scritture contabili, ai fini dell’ottenimento del decreto ingiuntivo devono ritenersi venuti meno gli obblighi previsti dall’art. 634 co.2 c.p.c. .

Quello del Tribunale di Verona non è tuttavia un orientamento unanimemente condiviso.

Di diverso avviso, ad esempio, è il Tribunale di Vicenza, che con ordinanza del 25.10.2019 pronunciata ai sensi dell’art. 640 c.p.c., ha così statuito: “in tema di scritture contabili, l’art. 1, comma 3-ter del D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 127, prevede che i soggetti obbligati ad emettere esclusivamente fatture elettroniche mediante il Sistema di Interscambio sono esonerati dall’obbligo di annotazione nei registri di cui agli artt. 23 e 25 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, in quanto le relative informazioni sono acquisibili “aliunde” dall’Amministrazione Finanziaria mediante procedure informatiche. Tuttavia, il venir meno dell’obbligo non è equivalente ad un’attestazione di regolare tenuta, la quale anzi deve essere esclusa proprio per l’insussistenza di un obbligo di tenuta dei registri, con la conseguenza che, ai fini della sussistenza della prova scritta richiesta dall’art. 634, comma 2, c.p.c., il ricorrente in monitorio dovrà continuare a produrre l’estratto autentico dei registri Iva o, ove non esistenti, delle scritture contabili di cui agli artt. 2214 e ss. c.c” (Tribunale Vicenza Sez. II Ord., 25/10/2019, in Cedam Pluris, Massima redazionale, 2020).

Trib. Verona 29.11.2019

SECONDO LA CASSAZIONE, NEL GIUDIZIO DI REVOCAZIONE, IL DIFENSORE NON PUO’ ESSERE CONDANNATO IN PROPRIO AL PAGAMENTO DELLE SPESE QUALORA ABBIA AGITO IN FORZA DI PROCURA NULLA, MA SOLO NEL CASO IN CUI QUESTA RISULTI INESISTENTE

IL CASO. La Commissione Tributaria Regionale di Bari, sezione distaccata di Foggia, con sentenza del 27 gennaio 2014, dichiarava inammissibile l’impugnazione avverso la sentenza del giudice di prime cure che, pur accogliendo l’opposizione del contribuente avverso un avviso di accertamento, compensava le spese di giudizio.

Avverso tale decisone veniva proposto ricorso per revocazione, dichiarato a sua volta inammissibile con sentenza n. 2164/27/14 depositata in data 3 novembre 2014, in cui i Giudici, tra l’altro, ritenendo che i difensori avessero agito in assenza di procura speciale, li condannava in proprio al pagamento delle spese processuali.

LA DECISIONE. I legali impugnavano la decisone avanti la Suprema Corte. Il ricorso, articolato su quattro motivi, trovava accoglimento.

In particolare, i ricorrenti denunciavano l’erroneità della sentenza tanto dove qualificava come non speciale la procura, sebbene apposta a margine dell’atto di impugnazione, quanto nella parte in cui riteneva sussistenti i vizi della stessa, senza ordinarne però la rinnovazione sanante ed infine, laddove accoglieva la domanda, peraltro mai formulata, di condanna dei difensori.

 La Corte, nel motivare la decisone, evidenziava come i Giudici dell’appello avessero errato nel condannare i difensori per difetto di specialità della procura in quanto, nonostante questa fosse costituita da un prototipo per il giudizio ordinario senza alcun riferimento alla peculiarità dell’impugnazione, costante giurisprudenza ritiene che questa sia pacificamente riferibile al ricorso in parola, a prescindere dalle espressioni utilizzate.

Inoltre, proseguivano i Giudici, anche qualora la Commissione avesse inteso rilevare un vizio di invalidità della procura alle liti avrebbe comunque dovuto concedere un termine per sanarlo.

La questione, pertanto, alla luce di tutto quanto fin qui osservato, veniva risolta mediante l’applicazione del principio di diritto, già consolidato in giurisprudenza [1], secondo cui: “Nel giudizio di revocazione, il difensore della parte può essere condannato al pagamento in proprio delle spese processuali soltanto quando abbia agito in virtù di procura inesistente e non meramente nulla, giacché, in tale ipotesi, il rapporto processuale si instaura validamente, onerando il giudice, che rilevi il vizio della procura, di ordinarne la rinnovazione sanante.”  

Cass. Civ. 8591_2020


[1] Cass. Civ., SS. UU., n. 10706 del 10.5.2006 in Diritto e Giustizia; Cass. Civ., Sez. VI, n. 27530 del 20.11.2017 in Giustizia Civile Massimario

Fondo patrimoniale costituito dai coniugi e azione revocatoria

IL CASO. La Corte d’appello di Ancona rigettava il gravame proposto da due coniugi avverso la sentenza del Tribunale di Pesaro che aveva accolto l’azione revocatoria del fondo patrimoniale dagli stessi costituito nel 2010. Su domanda dell’istituto di credito che lamentava la lesione della propria posizione creditoria, il Tribunale aveva infatti dichiarato inefficaci tanto l’atto costitutivo del fondo patrimoniale, quanto l’atto notarile collegato di vendita della metà della nuda proprietà di un immobile effettuata dal marito a favore della moglie. Il marito, inoltre, si era costituito fideiussore della società di cui lui stesso era amministratore, al fine di agevolare la concessione di crediti da parte della Banca.

I coniugi proponevano ricorso per Cassazione avverso la pronuncia della Corte d’appello sulla base di cinque motivi, lamentando che la Corte territoriale avesse erroneamente ritenuto sussistente e sufficiente il requisito della consapevolezza del pregiudizio sulla base della ritenuta anteriorità del credito agli atti dispositivi.

LA DECISIONE. La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 8107 del 23.4.2020, ha rigettato il ricorso, condannando i coniugi ricorrenti al pagamento delle spese di lite oltre al versamento del c.d. doppio contributo unificato.

La Corte, infatti, nell’esaminare congiuntamente i primi quattro motivi, in quanto connessi, ha rilevato da un lato la corretta ricostruzione della vicenda e l’esauriente motivazione della sentenza da parte della Corte d’appello, dall’altro la corretta applicazione dell’orientamento giurisprudenziale maggioritario in materia di azione revocatoria.

Quanto al primo profilo, la Suprema Corte ha evidenziato che la S.p.A., della quale i coniugi erano l’uno amministratore nonché fideiussore e l’altro consigliere di amministrazione, era stata posta in liquidazione pochi giorni dopo la costituzione del fondo patrimoniale e dalla stipula della compravendita immobiliare. I coniugi erano quindi ben consapevoli dello stato di difficoltà economica della società; per di più il marito aveva in primo grado anche ammesso la dolosa preordinazione (aveva voluto sottrarre i beni alla prima ex moglie e sottrarli alla garanzia generica)

Quanto al secondo profilo, la Cassazione ha richiamato alcuni suoi precedenti:

  1. L’azione revocatoria ordinaria presuppone per la sua esperibilità la sola esistenza di un debito e non anche la sua concreta esigibilità, sicché, prestata fideiussione a garanzia delle future obbligazioni del debitore principale nei confronti di un istituto di credito, gli atti dispositivi del fideiussore, successivi alla prestazione della fideiussione medesima, se compiuti in pregiudizio delle ragioni del creditore, sono soggetti alla predetta azione, ai sensi dell’art. 2901 c.c., n. 1, prima parte, in base al solo requisito soggettivo della consapevolezza del fideiussore (e, in caso di atto a titolo oneroso, del terzo) di arrecare pregiudizio alle ragioni del creditore (“scientia damni”), ed al solo fattore oggettivo dell’avvenuto accreditamento di denaro da parte della banca, senza che rilevi la successiva esigibilità del debito restitutorio o il recesso dal contratto“.
  2. L’atto di costituzione del fondo patrimoniale, anche quando è posto in essere dagli stessi coniugi, costituisce un atto a titolo gratuito che può essere dichiarato inefficace nei confronti del creditore, qualora ricorrano le condizioni di cui al n. 1 dell’art. 2901 cod. civ. Nell’ambito della nozione lata di credito accolta dalla norma citata, non limitata in termini di certezza, liquidità ed esigibilità, ma estesa fino a comprendere le legittime ragioni o aspettative di credito – in coerenza con la funzione propria dell’azione revocatoria, la quale non persegue scopi specificamente restitutori, bensì mira a conservare la garanzia generica sul patrimonio del debitore in favore di tutti i creditori – deve considerarsi ricompresa la fideiussione. (Rigetta, App. Milano, 27 gennaio 2004)” Cass. civ. Sez. III Sent., 07/10/2008, n. 24757 (rv. 604813), in Mass. Giur. It., 2008)”.

PER LA CASSAZIONE E’ESCLUSO IL DIRITTO DI RECESSO AD NUTUM DEL SOCIO DI S.P.A. QUANDO LA STATUTO DELLA SOCIETA’ PREVEDA UNA DURATA PARTICOLARMENTE LUNGA.

IL CASO. Con decisione del 23.9.2009, confermata dalla Corte d’Appello di Bologna con sentenza n. 2204 del 28.9.2017, il Giudice di merito, ritenendo che la previsione della durata della società sino al 2100 fosse da considerarsi alla stregua della previsione di una durata indeterminata della stessa, accoglieva la domanda proposta da due soci di una S.p.a. che, a fronte del divieto posto dallo Statuto, chiedevano fosse dichiarato il diritto al recesso.

LA DECISIONE. Avverso tale pronunzia la società proponeva ricorso alla Corte di Cassazione. Il gravame articolato su tre motivi trovava accoglimento.

In particolare, la soccombente lamentava, da un lato “la non corretta equiparazione della previsione statutaria di una società per azioni che prevedeva un termine finale assai lungo di durata a quella di una società per azioni costituita a tempo indeterminato, la quale comporta, ai sensi dell’art. 2437 comma 3 c.c., la facoltà di recesso dal socio” e dall’altro la “falsa applicazione dell’art. 2285 comma 1 c.c. dovendo ritenersi inammissibile l’applicazione analogica alla società per azioni della norma in discussione, dettata per le società di persone”.      

La Corte, al riguardo, non riteneva possibile assimilare la società contratta per un tempo lungo ad una società contratta a tempo indeterminato, anche in considerazione della eccessiva aleatorietà alla luce delle numerose variabili che avrebbero dovuto essere calcolate nel caso concreto, in mancanza di parametri oggettivi e predeterminati, per valutare quando la durata statutaria legittimi il recesso ad nutum del socio.

Alla luce di tali considerazioni, veniva formulato il principio di diritto secondo cui: “È escluso il diritto di recesso “ad nutum” del socio di società per azioni nel caso in cui lo statuto preveda una prolungata durata della società (nella specie, fino al 2100), non potendo tale ipotesi essere assimilata a quella, prevista dall’art. 2437, comma 3, c.c., della società costituita per un tempo indeterminato, stante la necessaria interpretazione restrittiva delle cause che legittimano la fuoriuscita del socio dalla società e dovendo anche escludersi l’estensione della disciplina prevista dall’art. 2285 c.c. per le società di persone, ove prevale l'”intuitus personae”, ostandovi esigenze di certezza e di tutela dell’interesse dei creditori delle società per azioni al mantenimento dell’integrità del patrimonio sociale, potendo essi fare affidamento solo sulla garanzia generica da quest’ultimo offerta, a differenza dei creditori delle società di persone, che invece possono contare anche sui patrimoni personali dei soci illimitatamente responsabili.”

In conclusione, l’importanza di questa pronunzia risiede nel fatto che registra un radicale mutamento dell’orientamento in materia. Il precedente [1], infatti, assimilando la previsione statutaria di una durata della società per un termine particolarmente lungo ad una società a tempo indeterminato, ammetteva la possibilità per il socio di esercitare il diritto di recesso ad nutum. In verità, un timido segnale di mutamento già si avvertiva con altra recente pronunzia [2], in cui però i Giudici, sebbene non avessero attribuito rilievo alla aspettativa di vita del socio, ponevano invece l’accento, circa l’ammissibilità del recesso in parola, sulla “ragionevole data di compimento di un progetto imprenditoriale”.

Cass. Civ. Sez. I n. 4716_2020

 


[1] Cass. Civ., Sez. I, n. 9662 del 22.4.2013 in Giurisprudenza Civile Massimario

[2] Cass. Civ., Sez. I, n. 8962 del 29.3.2019 in Ilsocietario.it

IL CURATORE FALLIMENTARE ASSUME LA QUALIFICA DI “IMPRENDITORE” OGNIQUALVOLTA ESERCITI UNA AZIONE GIA’ NEL PATRIMONIO DEL FALLITO QUANDO LA SOCIETA’ ERA IN BONIS

IL CASO. Il Tribunale di Trani, accogliendo la domanda della Curatela, condannava una società al pagamento di una somma derivante da un credito di natura contrattuale sorto quando la fallita era ancora in bonis.

Con atto di appello la società, impugnando la sentenza di primo grado, evidenziava di aver pagato le fatture emesse dalla fallita a mezzo di assegni bancari. La Corte d’Appello di Bari, però, confermando la sentenza di prime cure, escludeva che le fatture e le note di credito emesse dalla appellata a comprova delle proprie allegazioni potessero avere forza probatoria, sia in difetto del requisito della certezza della data , ai sensi dell’art. 2704 c.c. , sia con riguardo alla prova dei pagamenti verso l’impresa fallita, atteso che gli artt. 2709 e 2710 c.c., che conferiscono efficacia probatoria, nei rapporti tra imprenditori, ai libri e alle altre scritture di unilaterale formazione, non trovavano applicazione nei confronti di un soggetto non avente tale qualità, quale il curatore del fallimento.

LA DECISIONE. La soccombente proponeva gravame avanti alla Suprema Corte. Il ricorso articolato su quattro motivi veniva accolto.

Di centrale importanza risultava il primo motivo che, nella sostanza, censurava la pronunzia nella parte in cui non applicava la regola iuris secondo cui la posizione della Curatela era equivalente a quella del fallito nell’esercizio di diritti già nel patrimonio di quest’ultimo.

Al riguardo la Corte osserva che la posizione della Curatela è differenziata a seconda che egli rappresenti gli interessi della collettività dei creditori ovvero diritti di spettanza del fallito nei confronti dei terzi. Nel primo caso, infatti, egli è terzo, mentre nel secondo subentra nella medesima posizione, facendone valere i relativi diritti, così come quando agisca per la riscossione di un credito del fallito.

Indispensabile puntualizzare che, comunque, questo non muta l’obiettivo del curatore che è resta quello di ricostruire il patrimonio originario del fallito e pertanto, anche se non formalmente, come nel caso che ci occupa, egli agisce sempre nell’interesse della massa dei creditori. 

La questione, pertanto, veniva risolta mediante la formulazione del principio di diritto secondo cui: “Il curatore fallimentare che proponga una domanda di adempimento dell’obbligazione contratta dal terzo nei confronti dell’imprenditore in epoca antecedente al fallimento esercita un’azione già esistente nel patrimonio del fallito, subentrando, conseguentemente, nella stessa posizione sostanziale e processuale di quest’ultimo, indipendentemente dal dissesto successivamente verificatosi; ne consegue che il terzo convenuto in giudizio dal curatore può opporre tutte le eccezioni che avrebbe potuto opporre all’imprenditore fallito, comprese le prove documentali da questi provenienti, senza i limiti di cui agli artt. 2704 ss. c.c. e senza che sia di ostacolo l’art. 2709 c.c.

In conclusione questa pronunzia ha il pregio di riproporre la questione della qualifica del Curatore nell’esercizio di una azione già nel patrimonio del fallito quando la società era in bonis, ponendosi in continuità con l’orientamento attualmente maggioritario [1], anche se la giurisprudenza sul punto rimane ondivaga [2].


[1] Cass. Civ., Sez. I, n.321 del 9.1.2013 in Giustizia Civile Massimario; Cass. Civ., Sez. I, n.18059 del 8.9.2004 in Giustizia Civile Massimario

[2] Cass. Civ.,  Sez. I, n.10081 del 9.5.2011 in Giustizia Civile Massimario; Cass. Civ., Sez. I, n.1543 del 26.1.2006 in Giustizia Civile Massimario

Cass. Civ. Sez. I n. 30446_2019

 

Sentenze che decidono solo alcune delle plurime domande proposte cumulativamente nel giudizio e criteri per valutarne la natura definitiva o meno: opportuno un nuovo intervento delle Sezioni Unite.

IL CASO. Gli eredi di Fo.Em. adivano il Tribunale di La Spezia chiedendo la risoluzione della donazione effettuata dal loro dante causa in favore del Comune di La Spezia per mancato adempimento dell’onere posto a carico del donatario, oltre alla condanna del Comune convenuto al rilascio del terreno donato ed al risarcimento dei danni per l’occupazione dell’area dal giorno del deposito della domanda a quello della liberazione del bene.

Il Tribunale, in accoglimento delle istanze degli attori, con sentenza depositata in data 27 giugno 2007 pronunciava la risoluzione dell’atto donativo, condannando altresì il Comune al rilascio del bene ed al rimborso delle spese legali. Il giudizio proseguiva, invece, per la decisione in merito alla domanda di risarcimento del danno, che veniva successivamente accolta con sentenza depositata in data 15 marzo 2010.

La Corte d’Appello di Genova – adita dal Comune soccombente che, previa espressa tempestiva formulazione di riserva di gravame avverso la pronuncia del 2007, impugnava entrambe le sentenze emesse dal giudice di prime cure – dichiarava inammissibile l’appello proposto contro la prima pronuncia per tardività e rigettava, nel merito, l’impugnazione proposta avverso la sentenza del 2010, accogliendo invece l’appello incidentale degli eredi di Fo.Em. volto ad ottenere un aumento della somma liquidata a titolo di risarcimento del danno.

Avverso tale decisione proponeva ricorso per Cassazione il Comune di La Spezia, formulando sette motivi di ricorso. Con il primo, in particolare, il ricorrente lamentava la nullità della sentenza di secondo grado nella parte in cui la Corte, valorizzando l’intervenuta liquidazione delle spese di lite nella sentenza del 2007 alla stregua di un implicito provvedimento di separazione delle cause, aveva qualificato tale pronuncia come “definitiva”, escludendo quindi la validità della riserva di gravame formulata dal Comune e concludendo per l’inammissibilità dell’appello da questo proposto per tardività.

Osservava il Comune che, al contrario, la stessa sentenza era stata espressamente qualificata dal Giudice estensore come “non definitiva“, con conseguente necessità di far prevalere tale espressa qualificazione sui sussidiari criteri formali elaborati dalla giurisprudenza per stabilire la natura definitiva o meno delle sentenze che decidono esclusivamente alcune delle domande cumulate – tra cui, per l’appunto, quello di liquidazione delle spese legali, valorizzato dalla Corte genovese – anche in ragione dell’esigenza di tutelare il legittimo affidamento serbato dalla parte in ordine alla qualificazione proposta dal Giudice.

LA DECISIONE. Il ricorso del Comune fornisce alla Suprema Corte l’occasione per interrogarsi ancora una volta in merito ai criteri da adottare per la qualificazione di sentenze che, a fronte di un cumulo di domande tra le stesse parti, decidano soltanto su alcune di esse.

Secondo l’orientamento ormai consolidato della giurisprudenza di legittimità – già fatto proprio dalle Sezioni Unite con le sentenze nn. 1577/1990, 711/1999, 712/1999 e 9441/2011 – tale qualificazione dev’essere compiuta sulla base di un criterio esclusivamente formale, per il quale deve considerarsi non definitiva – e dunque suscettibile di riserva di gravame – esclusivamente la sentenza che, decidendo su alcune soltanto delle domande, non adotti un formale provvedimento di separazione ex art. 279, comma 2, n. 5, c.p.c. né provveda a liquidare le spese di lite relative alle domande decise.

Nel caso di specie la Corte, pur ribadendo la propria adesione all’approccio formale già adottato dalle Sezioni Unite, si interroga in merito all’applicabilità di tale orientamento nell’ipotesi in cui, come nel caso in esame, a fronte di elementi formali idonei a far propendere per la natura definitiva della pronuncia – quale l’intervenuta liquidazione delle spese legali – sussista una contrapposta qualificazione espressamente adottata dal giudice ed idonea ad ingenerare nelle parti il “ragionevole convincimento in ordine all’effettiva sussistenza di detta natura (non definitiva, n.d.r) ed alla ammissibilità della riserva di impugnazione”.

Ad opinione degli ermellini, infatti, i criteri formali tesi a valorizzare esclusivamente l’esistenza di un provvedimento di separazione e/o di liquidazione delle spese di lite “appaiono effettivamente risolutivi ai fini della risposta all’interrogativo circa la qualificazione della sentenza nei soli casi in cui risulti però mancante una formale qualificazione da parte dello stesso giudice”, sicché, tenuto anche conto dell’esigenza di tutelare il fondamentale principio della cd. “apparenza”, risulta opportuno rimettere gli atti al Primo Presidente per un’eventuale remissione alle Sezioni Unite della seguente questione di massima di particolare importanza: se, in presenza di una sentenza che decida su alcune soltanto delle domande cumulate tra le stesse parti nel giudizio, ove sussistano contemporaneamente elementi formali contraddittori tra loro, ”debba prevalere l’espressa qualificazione data dal giudice alla propria decisione, rendendo quindi recessivi i diversi indici formali della liquidazione delle spese e della separazione delle causa, destinati quindi ad un ruolo sussidiario ed idonei a risolvere il dubbio solo in assenza di un’espressa manifestazione del giudice, ovvero se debba pervenirsi ad una soluzione di segno opposto”.

La pronuncia in commento – n. 6624 del 9.3.2020 – fornisce inoltre alla Suprema Corte lo spunto per sollecitare una valutazione delle Sezioni Unite sull’opportunità di adottare un distinto criterio di qualificazione delle sentenze adottate nei giudizi di scioglimento delle comunioni, ove – ad opinione del Collegio remittente – la pronuncia che approva il progetto di divisione rinviando per l’estrazione dei lotti alla prosecuzione del giudizio dovrebbe considerarsi definitiva anche in mancanza di un provvedimento di liquidazione delle spese di lite ovvero in presenza di un’espressa opposta qualificazione da parte del giudice. In tale materia, infatti, potendo il giudice procedere all’estrazione a sorte dei lotti solo a seguito del passaggio in giudicato della sentenza che approva il progetto divisionale, la qualificazione come non definitiva di tale pronuncia legittimerebbe la riserva di gravame ed impedirebbe, per tale via, il passaggio in giudicato della sentenza, così precludendo l’estrazione a sorte dei lotti e determinando un irrimediabile stallo del processo.   

Cass. 6624 -2020 

 

La notifica della sentenza alla parte personalmente presso il procuratore costituito determina il decorso del termine breve di impugnazione.

IL CASO. Adita per la riforma della sentenza di primo grado con cui il Tribunale di Roma aveva rigettato il ricorso di una Cooperativa che pretendeva dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per l’Informazione e l’Editoria il pagamento dei contributi per l’editoria ex art. 3 L. 250/1990 per l’anno 2007, la Corte d’Appello capitolina accoglieva il gravame, condannando la Presidenza del Consiglio al pagamento dei contributi richiesti oltre alla refusione delle spese di lite dei due gradi di giudizio.

La decisione, depositata in data 25.10.2015, veniva impugnata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per l’informazione e l’Editoria con ricorso notificato in data 22.2.2016.

Resisteva con controricorso notificato il successivo 29 marzo la Cooperativa, che eccepiva in via preliminare l’inammissibilità del ricorso per tardività ex art. 325, comma II, c.p.c., per essere stato lo stesso proposto solo in data 22.2.2016 pur a fronte della notifica – in data 16.12.2015 – della sentenza d’appello in forma esecutiva alla Presidenza del Consiglio presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che l’aveva rappresentata nel giudizio di secondo grado.

LA DECISIONE. L’ordinanza n. 2974 del 7.2.2020, in commento, fornisce alla Suprema Corte l’occasione per interrogarsi ancora una volta sulla validità, al fini del decorso del termine breve di impugnazione, della notifica della sentenza (peraltro, spedita in forma esecutiva) effettuata non al difensore costituito – come imporrebbe l’art. 170 c.p.c., cui l’art. 285 c.p.c., in tema di modo di notificazione della sentenza, fa rinvio – bensì alla parte personalmente presso il difensore domiciliatario ex lege.

Osserva preliminarmente la Corte che, ai fini del decorso del termine breve di impugnazione, è ininfluente la spedizione o meno in forma esecutiva della sentenza, ben potendo anche una notificazione eseguita in forma esecutiva determinare il decorso del termine breve, purché diretta al soggetto legittimato a riceverla.

Quanto invece al destinatario della notificazione, ad opinione degli ermellini la notifica della sentenza effettuata alla parte personalmente presso il procuratore costituito anziché direttamente a quest’ultimo è egualmente idonea a determinare la decorrenza del termine breve ex art. 325, comma II, c.p.c., considerato che “entrambe le forme di notificazione soddisfano l’esigenza di assicurare che la sentenza sia portata a conoscenza della parte per il tramite del suo rappresentante processuale, professionalmente qualificato a vagliare l’opportunità dell’impugnazione”. Ciò che conta è, però, che il procuratore sia individuato specificatamente in modo da garantire a costui la possibilità di avere concreta conoscenza dell’atto e valutare, così, l’opportunità di proporre l’impugnazione.

Tale orientamento era d’altronde stato fatto proprio dal Supremo Consesso già in precedenti pronunce, tra le quali l’ordinanza n. 18493 del 01/09/2014 e le sentenze n. 20193 del 18/09/2009, n. 13546 del 11/06/2009 e n. 11216 del 08/05/2008.

Sulla base di tali considerazioni, la Corte constata quindi la tardività nel caso di specie del ricorso, notificato solo sessantotto giorni dopo la notifica della sentenza impugnata e, dunque, potenzialmente inammissibile.

Sulla scorta del principio giurisprudenziale di prevalenza delle ragioni di improcedibilità su quelle di inammissibilità, tuttavia, i giudici di legittimità, rilevato come il ricorrente non avesse depositato nel termine di cui all’art. 369, comma I, c.p.c., la copia della sentenza con la relata di notifica, dichiarano l’improcedibilità del ricorso proposto dalla Presidenza del Consiglio.

Cass. 2974 – 2020